26 agosto 2016: atterriamo con due ore di ritardo, alle 22,30, all’aeroporto di Tokyo: io, Giorgio e il suo zaino. Il mio è disperso, e arriverà solo fra due giorni e molte telefonate, in un crescendo di nervosismo perché, come scoprirò ben presto, i giapponesi capiscono poco l’inglese e lo parlano ancora meno… comunque arriverà, trasportato da uno dei mitici furgoncini Gatto nero, onnipresenti nella capitale nipponica.

Ma adesso è tardi, siamo stanchi, e non vediamo l’ora di raggiungere la casa che abbiamo affittato per il nostro soggiorno a Tokyo. Prendiamo una prima metropolitana, poi facciamo un tratto a piedi; io ucciderei per un po’ d’acqua, così Giorgio, non so come, scova un distributore automatico: mi avvento sulla bottiglietta che mi porge, che però risulta essere aromatizzata a un gusto improponibile e assolutamente imbevibile (maledetti giapponesi!); quindi riprendiamo la metro e cominciamo a seguire pedissequamente il video che ci ha mandato il nostro ospite, e che ci guida dalla stazione di arrivo fino al nostro appartamento.

Perché non bastava darci l’indirizzo?

Ma perché a Tokyo non ci sono indirizzi! Le strade non hanno nomi. Come facciano a districarcisi gli autoctoni non ci è chiaro: noi, non essendo dotati di provvidenziali fili d’Arianna, non facciamo che memorizzare tutti i nostri percorsi.

Finalmente arriviamo al nostro appartamento, in un quartiere vecchio, con le casette basse. Casa nostra, al primo piano, è composta di un soggiorno-stanza da letto, con una stuoia, due pouf sui quali sedersi, e due mensole su cui sono ripiegati due futon. Quando è ora di andare a dormire, si mettono i pouf sulle mensole e si stendono i futon sulla stuoia, et voilà! Il soggiorno è diventato la camera da letto. Accanto c’è un angolo cottura, e completa la magione un bugigattolo con un water, in cima al quale c’è un micro-lavandino. Se pensate che i giapponesi in posti come questo ci vivono… brrrr!

27 agosto 2016: cambiando un sacco di mezzi pubblici, arriviamo allo Studio Ghibli. La sensazione è che sia stato progettato da due team di architetti, uno rivolto a un pubblico di adulti e l’altro a uno di bambini senza riuscire a trovare un accordo, per cui alla fin fine risulta un po’ deludente. L’unica cosa che a mio avviso vale davvero la pena sono le scenografie disegnate da Miyazaki e appese nelle stanze perimetrali: quelle sì, sono bellissime!

Lasciato lo Studio Ghibli, passeggiamo per vari quartieri della capitale, finendo perfino in un cimitero. Incocciamo anche in una festa di quartiere, con suonatori di tamburo davvero bravi, che ci fermiamo ad ascoltare e applaudire nonostante la pioggia battente. Alla sera ci rechiamo in un ristorante tipico, dove ci si siede al bancone osservando il lavoro del cuoco. Io prendo un fritto, Giorgio un fritto di stagione: scopriamo che la differenza sta nel fatto che il cuoco prende dall’acquario un pesciolino e lo getta repentinamente nell’olio bollente: questo resta impalato sulle pinne, cosa che ricorda parecchio Pompei, e finisce nel fritto di Giorgio.

Sono strani, ‘sti giapponesi.

28 agosto 2016: sotto una pioggia battente lasciamo Tokyo e in treno ci rechiamo a Nikko, famosa per i suoi templi sparsi in un bosco lussureggiante.

In effetti è un posto bellissimo e suggestivo - peccato non avere le branchie per apprezzarlo appieno – in cui ci fermiamo fino a metà pomeriggio.

Quando lasciamo il recinto dei templi, magicamente smette di piovere: notiamo così, al di là di un ponte, le indicazioni per un sentiero di trekking, e decidiamo di andare ad esplorare.

Il sentiero si snoda lungo la riva di un fiume, ed è molto rilassante; dopo un paio di chilometri giungiamo ad un’ansa in cui sono allineate una ventina di statuette di pietra di Jizo, il protettore dei viaggiatori e dei bambini non nati: alcune di queste statue indossano dei vestitini di lana rossi, altre hanno sciarpe o cappellini, sempre di lana rossa, e alcune portano persino gli occhiali. Il motivo di questi addobbi, scopriremo in seguito, è molto dolce e triste: i genitori di bambini abortiti, o nati morti, o morti da piccoli, scelgono una di queste statue e la curano come se fosse il loro bambino, affinchè Jizo vegli su di lui e lo accompagni nell’Aldilà.

Lasciato il posto delle statue, torniamo sui nostri passi e ricomincia il diluvio.

Al ritorno, in treno, facciamo voti perché smetta di piovere.

29 agosto 2016: oggi visita di Tokyo: ha smesso di piovere (mai successo che qualcuno ascoltasse i nostri voti), ma per contrappasso fa un caldo mortale.

Andiamo per prima cosa sull’isola artificiale di Odaiba, a far visita alla gigantesca statua di Gundam: da lì si ha un bel colpo d’occhio sulla città, e individuiamo senza sforzo la Tokyo Tower, così arancione e così…. copia della Torre Eiffel.

Per visitare l’intera isola ci avvaliamo della monorotaia soprelevata Yurikamome che, lasciatasi alle spalle Gundam, percorre tutta l’isola, inoltrandosi tra grattacieli futuristici: sembra di essere in un episodio del cartone animato che guardavo da piccola, “I pronipoti”!

Lasciata Odaiba, decidiamo di visitare dei giardini deliziosi, con tanto di ponti e casa del the, dove incrociamo anche due novelli sposi in pieno servizio fotografico, entrambi vestiti con il kimono: belli!

Alla sera, dopo una coda chilometrica, andiamo a cena in un Ramen, che propone, per l’appunto, esclusivamente ramen, ovvero l’unico piatto giapponese che mi piace… o forse dovrei dire che mi piaceva, perché quando Giorgio si premura di dirmi che il brodo viene fatto bollendoci la testa del maiale mi viene su uno schifo che d’ora in poi non posso nemmeno più pensare di mangiarlo, ‘sto benedetto ramen…

30 agosto 2016: oggi continuiamo il giro di Tokyo, cercando di mettere il naso in quanti più quartieri possibile: cominciamo da alcuni giardini con un tempio shintoista e un lago con delle bellissime ninfee, passando poi per il quartiere moderno di Shiniuko e la sua zona dedicata ai locali a luci rosse, Kabukicho, per poi passare a Shibuya col suo celeberrimo incrocio pedonale, con le persone che si incrociano in tutte le direzioni, e la statua del cane Hachiko; infine un salto ad Akihabara, mecca dei manga, dove visitiamo un negozio che occupa tre piani di un grattacielo.

Io mi infilo nel reparto manga a luci rosse, dove i clienti sono esclusivamente uomini che quando mi vedono avvampano: da un rapido bench marking, evinco che il sogno erotico dell’uomo giapponese è una ragazzina liceale con delle enormi tette, che piange.

Non so se lo avevo già detto, ma… sono strani, ‘sti giapponesi.

Nel tardo pomeriggio, dato che a casa nostra non ci sono né doccia né vasca da bagno, ci rechiamo ad un sento (bagno pubblico che, a differenza dell’onsen, non offre acqua termale, bensì normale acqua della rete idrica riscaldata), come fanno ancora adesso tutti gli attempati abitanti del nostro quartiere.

Una volta pagato il biglietto di ingresso, ci dividiamo: uomini a sinistra, donne a destra. Io copio le signore già entrate, e distendo il mio asciugamanino per terra, prima di varcare la soglia che collega lo spogliatoio al bagno. Una volta dentro, noto che ci sono 3 vasche: una tiepida, una calda e una caldissima. Le signore nelle vasche mi indicano a gesti dei rubinetti posti ad altezza ginocchio, con degli sgabellini minuscoli affiancati da piccoli secchi. Intuisco che dovrei sedermi sullo sgabellino (no grazie, non voglio pensare a quanti batteri proliferano lì sopra) e lavarmi con l’ausilio dei secchielli. Mi inginocchio e mi lavo così scomodamente come mai nella vita, sentendomi la reincarnazione di Gulliver – i giapponesi sono piccoli, va bene, ma mica nani! Anche per loro dev’essere scomodo… mah! Sono strani, ‘sti giapponesi.

Poi, quando dalle occhiate delle signore capisco che sono sufficientemente pulita, entro nella vasca tiepida. Alla faccia dell’acqua tiepida!!!! Se le altre sono più calde, rinuncio anche solo ad avvicinarmi. Resto qualche minuto a mollo, poi decido che l’esperienza può dirsi conclusa ed esco, asciugandomi i piedi sul mio asciugamanino e salutando le gentili signore giapponesi.

All’uscita, chiedo a Giorgio se avesse steso il suo asciugamano. “Ma no, non ce n’era bisogno! Ce n’erano già tanti altri stesi, ho camminato su quelli”. “Ok, accelera! Andiamo via, prima che ci uccidano! Hai pestato coi tuoi piedoni occidentali gli asciugamani dei giapponesi…”.

Corriamo a casa, anche perché dobbiamo cercare di dormire qualche ora prima di andare al mercato del pesce di Tsukiji, per la famosa asta dei tonni – questo è l’ultimo anno che questa tradizionale operazione si tiene qui, dall’anno prossimo verrà spostata al di fuori di Tokyo – asta che ha luogo al mattino alle 5.00, ma prevede che i visitatori che vi vogliono assistere si presentino ai cancelli alle 3.00…

Sono strani, ‘sti giapponesi.

31 agosto 2016: dopo pochissime ore di sonno, lasciamo la nostra casetta per recarci, in una Tokyo livida e deserta (altro che la città che non dorme mai!) al mercato di Tsukiji. Come noi ci sono altri turisti-zombie, fa molto freddo ed essendo fra gli eletti che potranno assistere all’asta dei tonni, dato che ci siamo presentati fra i primi, veniamo premiati con l’ingresso in uno stanzone freddo e vuoto, in cui ci lasciamo cadere per terra, tutti piuttosto stravolti, cercando di strappare ancora qualche brandello di sonno. Alle 5 ci fanno passare nella grande stanza dell’asta, asta che dura qualcosa come 3 minuti. I venditori portano pezzetti di tonno, che vengono testati con degli uncini, e a seguire i compratori fanno le loro offerte; il tutto è velocissimo, e prima che uno abbia il tempo di capire come funziona è già finito.

Visitiamo il mercato del pesce, che non è per deboli di stomaco; il sangue per terra si spreca, e a un certo punto vedo un venditore che afferra un lungo pesce vivo, tipo anguilla, e lo impala con un lunghissimo spiedo, mentre questo si contorce. Sull’orlo del vomito, lascio Giorgio a queste amenità ed esco a prendere un po’ d’aria. Intanto si sono fatte le 6.00, e Giorgio decide di fare un’ottima colazione a base di sushi; io passo, il sushi mi fa schifo già alla sera, figuriamoci alle sei del mattino.

Girelliamo un po’ nei negozi lì attorno, compro un kit per scrivere sulla carta di riso e un set di foglietti per fare gli origami, e poi ci dirigiamo verso un parco con delle canne di bambù altissime e molto belle. Verso le sei di sera prendiamo l’autobus che ci porta all’aeroporto di Narita (il servizio di trasporto pubblico si interrompe, di notte, e al mattino non riprende in tempo per il nostro volo; un taxi ci costerebbe 300 euro, per cui abbiamo deciso di dormire in aeroporto).

Qui abbiamo l’opportunità di dormire in un hotel Capsula, esperienza da fare una volta nella vita. Le coppie etero vengono separate, uomini da una parte e donne dall’altra. Se però due donne o due uomini vogliono dormire insieme, direi proprio che possono farlo- anche se, cominciando a conoscere i giapponesi, non credo proprio che questo sia interpretabile come un segnale di apertura verso la comunità LGBT. Entrati nel corridoio, si lasciano le proprie cose in un armadietto, e ci si infila la vestaglietta e le ciabatte offerte dall’hotel. Ci si reca a fare la doccia, e una volta pronti si accede a un altro corridoio, tenuamente illuminato, dove ci sono due file sovrapposte di cuccette: una volta che ci si è infilati nella propria, la si può chiudere abbassando una tendina di stoffa leggerissima (ottima soluzione anti-stragisti). Io non riesco a dormire, perché la mia vicina di cuccetta russa come un trattore. Ma quanto russa?!?! Ah, no, è che si può scegliere un disco che fa il rumore del mare per conciliare il sonno, ma se gli stai di fianco percepisci un sonoro ronfare….

Sono strani, ‘sti giapponesi.

1 settembre 2016: all’alba prendiamo l’aereo per Fukuoka, e durante il volo ci attende una bellissima sorpresa: anche se fugacemente, vediamo il Monte Fuji libero dalle nuvole!

Atterrati all’aeroporto internazionale di Fukuoka, ci rechiamo all’agenzia di noleggio auto presso la quale abbiamo prenotato la nostra macchina, e qui ci troviamo a interloquire con delle impiegate gentilissime, che però non spiccicano una parola di inglese. Io provo a parlare, e loro ridono. Io mi innervosisco, e loro continuano a ridere. Chiedo di parlare col boss (almeno quello lo capiscono), e compare un quarantenne che ci indica la nostra vettura. Quando proviamo a inserire una destinazione nel navigatore, ci accorgiamo con orrore che bisogna utilizzare i caratteri cangi.

“Avevamo chiesto un navigatore in inglese!”

“English, english!” mi risponde il boss, ridendo.

Sto per insultarlo pesantemente, quando mi ricordo di aver letto da qualche parte che i giapponesi, quando sono in imbarazzo, ridono. Strategia che applicata nei confronti di un’occidentale irritata (eufemismo) risulta fallimentare.

“Potrà pure parlare in inglese, ma se non possiamo mettere la destinazione a che ci serve?”

Il direttore ci mima che inserirà lui la destinazione. Ottimo, e verrà con noi per tutta la settimana, quando gireremo tutta l’isola di Kyushu?

No, no, ha, ha, ha!!!!!

A questo punto Giorgio salva il direttore dallo sterminio e me dal carcere a vita dicendomi che ha un navigatore sul cellulare, e che potremo usare quello. Prendiamo quindi possesso della nostra vetturetta e partiamo per Nagasaki. Qui ci sistemiamo in ostello, cerchiamo di fare una lavatrice ma quella si blocca, e allora usciamo. Andiamo a visitare il Memoriale della Bomba: molto toccante. All’ingresso ci sono due grandi contenitori pieni di gru di carta di diversi colori: sono origami fatti dai bambini per celebrare l’anniversario della Bomba, e se ne possono prendere alcuni per ricordo. Nagasaki, a parte il Memoriale, non ha grandi attrattive: l’unica è quella che ci attende alla sera, quando saliamo sul monte Inasa con la Nagasaki Ropeway (una funivia), e lo spettacolo delle lui e della baia è molto piacevole.

2 settembre 2016: al mattino decidiamo di fare un tratto della strada costiera nei pressi di Nagasaki (nulla di indimenticabile), e poi facciamo rotta verso sud: dopo un giorno di viaggio, immersi in un panorama molto verde, arriviamo a Kagoshima (nomen omen), dove dormiremo, ma sul momento attraversiamo la città e proseguiamo verso sud, fino a Ibusuki, per fare il "suna-mushi" - che significa “cuocere in sabbia”. Qui Giorgio fantasticava di essere seppellito nella sabbia vulcanica calda da una timida e sensuale geisha; invece si presentano due uomini nerboruti, che con poche palate ci seppelliscono fino al collo. Dopo una mezz’oretta, quando cominciamo a temere di venire abbandonati lì per la notte, vengono a liberarci, ed entriamo nello stabilimento termale. Dopo la solita doccia da gnomo, possiamo entrare nella piscina termale, che invece è grande e bella. Pienamente rilassati, ci rechiamo al nostro hotel di Kagoshima, dove abbiamo una sorpresa: la Japan Airlines ci ha mandato una mail, rigorosamente in giapponese, e la cosa non sembra promettere bene per il volo dell’indomani verso l’isola di Yakushima…

Oh, meno male che stasera siamo in albergo e non in un Airbnb, così posiamo chiedere che ci traducano la mail! Andiamo alla reception, e l’impiegata cui mostriamo il telefono ride e chiede: “Check-in?” “Ma no, al limite check-out, ma leggi qui, cosa c’è scritto?” “Ha ha ha, check-in?” Io ‘sta cosa che più mi innervosisco e più loro mi ridono in faccia non la reggo proprio. Per fortuna arriva una collega, che legge la mail e ci fa: “Your flight…” e poi incrocia gli avambracci davanti a sé.

Ecco, lo sospettavamo! Cancellato. Domani andiamo in aeroporto e vediamo che cosa si può fare, ma per adesso andiamo a dormire, va!

3 settembre 2016: all’aeroporto di Fukuoka, con le consuete barriere linguistiche, apprendiamo che il nostro volo è stato cancellato a causa di un tifone. OK, possono riprogrammarcelo per domani? Gli operatori appaiono perplessi, anche perché ci spiegano che non si sa dove sarà il tifone domani, ma alla fine abbiamo il nostro biglietto. Bene, che si fa? Piove che Dio la manda, ma ci dirigiamo verso la zona vulcanica del Monte Aso. Non è giornata adatta all’ascensione sul vulcano più grande del Giappone, ma mentre gli passiamo vicino per cinque minuti smette di piovere, il cielo si apre e abbiamo così modo di vedere la caldera: è enorme!!! Proseguiamo per un piccolo parco, dove visitiamo un piccolo museo vulcanologico (è tutto piccolo, qui), e poi saliamo sul monte più basso, dei due che svettano accanto al museo. Il percorso è abbastanza ripido, e si snoda interamente nel bosco: quando arriviamo in cima, sorpresa! Non si tratta di piccolo monte, come pensavamo, ma di un vulcano: ce ne accorgiamo dalla forma, perché in realtà la caldera è completamente coperta dal bosco. Facciamo il periplo della cima, e riscendiamo. In un lampo di ottimismo decidiamo di salire anche sul vulcano più alto, lì accanto, ma dopo un quarto d’ora la pioggia rinforza ulteriormente e l’impresa diventa assurda, per cui torniamo alla macchina per metterci qualcosa di asciutto. Ormai è tardo pomeriggio, e rientriamo alla base perché domani, se tutto va bene, il nostro volo è al mattino abbastanza presto.

4 settembre 2016: il volo c’è!!!! Arriviamo a Yakushima e ci dirigiamo all’autonoleggio. Tutto bene, la macchina è pronta, ma quando l’impiegato chiede a Giorgio di mostrargli la sua preziosissima patente internazionale, lui risponde candidamente che l’ha lasciata nella macchina all’aeroporto di Kagoshima, per evitare di perderla. Non credo alle mie orecchie: Giorgio si sta giapponesizzando!!!! Segue litigio spaziale, e conseguente ricerca della fermata dell’autobus che ci lascerà nei pressi della Pensione Blue Drop, gestita dall’impareggiabile Yukki, gentilissima e soprattutto in grado di parlare un inglese fluente. Dopo aver lasciato i bagagli, raggiungiamo uno dei due parchi dell’isola, che ne costituiscono la principale attrazione. Sono infatti delle foreste plurisecolari, attraversate da percorsi fiabeschi che si snodano in un sottobosco completamente ricoperto di muschio. Pare che Yakushima abbia fornito l’ispirazione a Miyazaki per l’ambientazione della Principessa Mononoke.

E’ un sogno, davvero.

Siccome per i giapponesi questi sono sentieri di montagna (più o meno, saremo a 800 metri), incontriamo alcuni gruppi di turisti locali che seguono guide alpine, tutti rigorosamente con… le ghette!

Sono strani, ‘sti giapponesi.

Alla sera ceniamo da Yukki, ma prima di cena, mentre facciamo due chiacchiere, io mi siedo su una panca. Vedo che lei strabuzza gli occhi, e Giorgio mi sibila che sono seduta sul tavolo… ah già, che qui non usano panche e sedie! Quindi, una cosa che ha la forma di una panca, è di legno come una panca, ed è alta come una panca, non può che essere un tavolo.

Sono strani, ‘sti giapponesi.

Dato che domani, dopo aver visitato l’altro parco, abbiamo in mente di andare a pucciarci in un onsen a ridosso dell’oceano, e magari nell’oceano fare un bagno, Yukki ci affitta maschera e boccaglio, “per vedere i pesci che alla sera mangerete”. Quanto animalismo.

5 settembre 2016: oggi visitiamo l’altro parco: è come camminare in una fiaba, potrei restarci per settimane. Rimaniamo a girare per i diversi percorsi per tutto il giorno, e mentre rientriamo, nel tardo pomeriggio, sento un urlo belluino alle mie spalle: oddio, Giorgio è stato morsicato da un serpente? No, è inciampato e, sbilanciatosi in avanti, si è trovato a fissare due occhi gialli nascosti sotto una pietra coperta di muschio.

E i due terribili occhi gialli appartengono a… un rospo!!! Rido per mezz’ora, mentre Giorgio fa l’offeso. Poi prendiamo l’autobus per tornare a casa, e dopo circa 10 minuti che siamo partiti il mezzo comincia a strombazzare, tutto da solo. Il rumore è molto fastidioso, ma l’autista non sa che cosa fare per risolvere il problema, per cui continua a guidare come se niente fosse per l’ora successiva e contemporaneamente, indovinate un po’ che fa? Ride. A casa ci mettiamo il costume sotto ai vestiti, raccattiamo maschera e boccaglio e prendiamo l’autobus fino al punto in cui la strada è troppo stretta e non si può proseguire oltre (ecco perché avevamo pianificato di affittare la macchina). A poca distanza da lì c’è una bella cascata, dove veniamo approcciati da un signore giapponese che, dal momento che conosce l’inglese, ha deciso di fare conversazione. Ne approfitto per chiedergli lumi sulla frase che si sente in metropolitana ogni volta che si rallenta in vista di una stazione, e che secondo me potrebbe significare qualcosa tipo “Mind the gap!”. Quindi, che cosa significa “Asimo totò!”? Il mio interlocutore aggrotta le sopracciglia e con fare accusatorio mi dice che io parlo molto male il giapponese. Mai sostenuto di parlarlo. “Tu hai detto vorrei leccare la tua sorella, e non penso che lo dicano nella metropolitana!”. In effetti non lo penso nemmeno io.

Ah, la famosa flessibilità giapponese!

Salutiamo il nostro interlocutore, e ci dirigiamo all’onsen. Qui c’è già una famiglia giapponese di tre persone a mollo (si tratta di una pozza di acqua termale racchiusa da una vasca in cemento in cui ci si potrebbe anche stare in cinque, ma loro schizzano via prima che possiamo provare un qualsiasi approccio), per cui prima facciamo un bagno nell’oceano (è la prima volta che mi capita), e poi ci spaparanziamo nell’onsen, mentre cala la notte e le stelle si accendono sopra di noi). E’ tutto molto bello, ma a un certo punto il cielo si copre e minaccia pioggia. Ritorniamo quindi sulla strada, anche se gli autobus a quest’ora non passano più, ma proprio mentre cadono le prime gocce si ferma accanto a noi un buon samaritano: è un ragazzo giapponese che in perfetto inglese (oggi è il nostro giorno fortunato, con tutti questi giapponesi che conoscono l’inglese: non si ripeterà più) ci offre un passaggio fino a casa.

Dice che una settimana fa ha dato un passaggio a un francese. Se gli piace collezionare europei in difficoltà, non ho nulla in contrario a far parte della sua collezione. E così, per oggi, ci risparmiamo una lunga camminata sotto la pioggia.

Che giornata fantastica!

6 settembre 2016: abbiamo ancora la mattinata a disposizione, e la dedichiamo a fare il giro (quasi) completo dell’isola con il pullman. Il perimetro insulare è bello, ha un’aria di mare molto rilassante, ma l’interno, con i suoi cedri millenari, ha un fascino unico. Yakushima vale il viaggio in Giappone!

Atterrati a Kagoshima, ritroviamo la nostra macchina e facciamo rotta verso il castello di Kumamoto, per poi scoprire, quando siamo quasi arrivati, che non ci si può avvicinare in quanto il castello è stato distrutto dal terremoto di aprile. Allora ci dirigiamo verso la nostra meta successiva, le gole di Takachico, ma dobbiamo fare un sacco di deviazioni perché, sempre a causa del recentissimo terremoto, molte strade sono ancora chiuse al traffico. Arriviamo alle gole che è troppo tardi per visitarle in barca, e così le osserviamo dal sentiero che le costeggia in alto. Ci sembrano belle ma non imperdibili, e siccome il noleggio barche la mattina dopo apre alle 10.00, decidiamo di non aspettare e di non rinunciare alla salita del monte. Stasera dormiamo in un tipico ryokan (una locanda tradizionale), devo dire molto piacevole.

7 settembre 2016: oggi saliamo in cima a un monte vulcanico: dopo una lunga scalinata, che porta a un punto panoramico, comincia il trekking vero e proprio: dopo un avvicinamento piuttosto lungo e piacevole, in un territorio prima boscoso, poi di colpo decisamente brullo, arriviamo ai piedi del monte. La salita, un po’esposta, dà noia a Giorgio provocandogli le vertigini, ma alla fine raggiungiamo la cima. E’ la prima vetta di Giorgio, ed è una vetta giapponese! Doppia soddisfazione per lui. E’ ormai metà pomeriggio, quando torniamo alla macchina. Dobbiamo riconsegnarla a Fukuoka, e non sappiamo se abbiamo tempo per visitare le fumarole nel nord-est di Kyushu.

Mentre cerchiamo di valutare il tempo a nostra disposizione, il traffico si intensifica e scoppia un prolungato temporale: ok, niente fumarole. Peccato, ma non si può vedere tutto in sole tre settimane! Riconsegnata l’auto a Fukuoka, raggiungiamo l’appartamento che abbiamo preso in affitto, dove, sorpresa! Nessuno ci risponde al citofono. Mentre ci interroghiamo sul da farsi, due passanti gentilissimi, vedendoci in difficoltà, si fermano per offrirci il loro aiuto. La questione viene risolta quando leggiamo la mail che la nipote della nostra ospite, una volta tanto in inglese, ci ha mandato dandoci le necessarie istruzioni. Meno male, perché eravamo davvero stanchi. Ceniamo in una delle tante baracchette all’aperto di Fukuoka, seduti insieme ai locali, come se fosse una sagra paesana.

Molto divertente!

8 settembre 2016: oggi, finalmente, prendiamo il famosissimo Shinkansen! Peraltro in ritardo di 10 minuti, senza che noi si veda neppure l’ombra di capotreni harakirizzanti. Che delusione. In breve arriviamo a Hiroshima, dove abbiamo affittato un appartamento minuscolo: scopriamo che la lavatrice è in cantina, in comune con gli altri appartamenti. Lasciati i nostri bagagli, con un treno locale raggiungiamo la stazione di Miajima, l’isola-giardino nei pressi di Hiroshima famosa per le foto onnipresenti del Torii rosso che, emergendo dall’oceano, le fa da porta di ingresso. Dal battello anche noi immortaliamo il Torii, poi prendiamo la funivia che porta sul punto più alto dell’isola e da lì cominciamo a visitare i parchi e i templi che la costellano, scendendo pian piano verso il mare.

Arrivati al fondo, girelliamo per il paese, molto piacevole, e facciamo l’incontro con un cervo che, prontamente, azzanna la cartina che tengo in mano. E’ un assaggio (è il caso di dirlo), dei famosi cervi di Nara, ghiotti di qualsiasi tipo di carta: provate un po’ a litigare con un cervo che si è messo in testa di brucare la vostra cartina! Alla fine, stremati, gliela lascerete.

Torniamo a Hiroshima, e io dico a Giorgio che non ne posso più di mangiare cibo che mi disgusta: siamo a metà vacanza, ho bisogno di una pausa, per favore per favore per favore troviamo un qualsiasi ristorante non giapponese, anche un Mac Donald, ma stasera basta alghe pesci zenzero et similia! Giorgio trova una pizzeria recensita come ottima da due salernitani, per cui decidiamo di andare lì. Lo so, è un peccato mortale mangiare italiano all’estero, ma io non ce la faccio proprio più, ogni volta che dobbiamo mangiare mi si chiude lo stomaco. La pizzeria Il polipo risulta di proprietà di un simpaticissimo giapponese, che parla un po’ di italiano, innamorato del nostro Paese. Ha imparato a fare le pizze a Napoli, e ogni anno ci torna per un paio di settimane: e, davvero, è una delle pizze migliori che abbiamo mai mangiato. Tutto è italiano, dalla scritta “bagno” alla saponetta, ai volumi della Cucina Italiana.

Mitico!

Vicino a noi c’è una coppia giapponese che ci sorride gentile, e anche senza parlare facciamo un po’ amicizia. Che bella serata, non pensavo che una pizza potesse portare con sé una simile felicità.

9 settembre 2016: oggi andiamo a visitare la sede di produzione della Mazda, per vedere come nasce la bellissima MX5. La visita, molto interessante, ci occupa tutta la mattina, per cui quando torniamo in centro si è fatta ora di pranzo. Avendo sentito parlare della specialità di Hiroshima, gli okonomiyaki, ed avendo letto che in un piccolo ristorante della stazione li fanno, ci dirigiamo lì e troviamo una fila che nemmeno in occasione dell’uscita dell’ultimo modello di I-phone… Ottimo segnale, ci mettiamo in coda.

Quando finalmente, una mezz’ora più tardi, tocca a noi, veniamo sistemati al tavolo di quattro distintissimi impiegati, con cui ovviamente non possiamo fare alcuna conversazione ma solo timidi sorrisi. In effetti l’okonomiyaki è delizioso: lo descriverei come una spessa frittata con-quello-che-ti-avanza-in-frigo, molto buona ma, ahimè, per me che sono refrattaria alle bacchette davvero imprendibile; meno male che uno dei signori giapponesi, notando la mia inettitudine, chiede al cameriere che ci vengano portate delle posate, che Giorgio schifa ma che per me sono la salvezza. Arigatò!!!!

Dopo l’okonomiyaki, che ha la prodigiosa capacità di saziare completamente per le 48 ore successive, ci dirigiamo a visitare il centro città. Cominciamo dal Genbaku Dome, che con la sua cupola ridotta a scheletro è l’icona di Hiroshima: nato per ospitare una Fiera commerciale, è l’unico edificio rimasto in piedi in quell’area dopo lo scoppio della Bomba, ed è tristemente suggestivo. Facciamo poi un giro dei giardini del Memoriale, un luogo bello e sereno, e poi ci dividiamo: io vado a visitare il museo, Giorgio non se la sente di immagazzinare altra tristezza, dopo quella di Nagasaki, e resta all’aperto. Il Memoriale, in effetti, è un pugno nello stomaco, ma è anche molto bello.

La cosa che mi resta più impressa sono le ombre rimaste sui muri delle persone vaporizzate dalla bomba: è sicuramente una cosa orribile eppure, come le immagini dell’attentato alle Torri Gemelle, è affascinante. Lasciati i giardini del memoriale, andiamo a visitare, soltanto da fuori, il castello di Hiroshima, chiaramente ricostruito dopo l’atomica, che ha una struttura architettonica molto bella e tipica dell’epoca feudale, con livelli sovrapposti di tetti che lo rendono movimentato e molto piacevole da guardare. Girelliamo poi per la città, visitando altri parchi dove vediamo, in ogni laghetto o fontana, diverse carpe che improvvisamente saltano fuori dall’acqua raggiungendo altezze davvero degne di nota.

Finiamo poi in una sagra della birra, praticamente deserta, dove una ragazza con le ginocchia unite e i piedi divaricati (la classica posizione delle ragazzine dei cartoni animati giapponesi: ma sono i cartoni che copiano le ragazzine, o le ragazzine che copiano i cartoni?) cerca di convincerci ad entrare. Ci riesce, ma il tutto è talmente desolante che ce ne andiamo subito. Sarebbe ora di cena, ma l’okonomijaki ci rende immuni a qualsiasi stimolo, per cui decidiamo di ritirarci nel nostro microscopico appartamento (se quello di Tokyo ci sembrava piccolo, abbiamo dovuto ricrederci: questo è la metà).

Domani ci attende il giro in bicicletta!

10 settembre 2016: col treno raggiungiamo Onomichi, dove noleggiamo le biciclette e iniziamo a percorrere la ciclabile Shimanami Kaido, una strada di 70 chilometri che, attraversando il mare interno su ponti modernissimi, tocca sei isolette – una sorta di Key West nipponica. Il percorso è molto piacevole, anche se non siamo allenati e verso la fine i 70 chilometri si fanno sentire. Arrivati a Imabari, sull’isola di Shikoku, restituiamo le bici e prendiamo il treno verso Hiroshima. Avendo finalmente digerito l’okonomijaki, dobbiamo decidere dove cenare: perché non tornare a Fukuoka, nei gabbiotti all’aperto stile sagra paesana?

E’ vero che dovremo farci un bel po’ di treno, tornando sui nostri passi, ma così ci riposiamo; e poi la tratta è compresa nel costosissimo pass settimanale che abbiamo acquistato per girare nella regione, così lo sfruttiamo appieno. Ma sì, andata! Torniamo a Fukuoka nei nostri amati gabbiotti, a cenare sulle panche coi giapponesi. Dopo cena torniamo a Hiroshima e ci trasciniamo a casa, piuttosto stanchi.

11 settembre 2016: avendo già visitato Hiroshima, decidiamo di esplorare qualcosa nei dintorni. La nostra scelta cade sulla cittadina di Yamaguchi dove, piuttosto vicino alla stazione, sorge la pagoda a 5 piani, costruita nel 1442, del tempio di Rurikoji: circondata da alberi alti quasi quanto lei, la pagoda è davvero bellissima. Passeggiamo per il centro della cittadina, e notiamo una casa tradizionale, in legno, che è possibile visitare: non ce la facciamo certo sfuggire!

Le case costruite in stile moderno, occidentale, in Giappone sono piuttosto brutte, così come i vestiti di foggia occidentale, spesso accostati senza alcuna cognizione cromatica: per degli italiani, un vero pugno in un occhio. Quando invece si incontrano case e abbigliamento tradizionali, ecco che si resta affascinati dall’eleganza e dalla grazia che li connotano. Questa casa, con le sue linee pulite ed essenziali, gli spazi chiusi che si contrappongono e si fondono con quelli aperti del giardino, le porte scorrevoli, gli ambienti minimalisti e sereni, ci piace un sacco. Terminata la visita, entriamo in un negozio che vende le Ouchi Ningyo Dolls, le bambole in legno laccato tipiche di questa città.

Si dice che la loro origine risalga alla metà del Trecento, quando Ouchi Hiroyo (1325 – 1380), l’allora capo del potente clan Ouchi, si trasferì a Yamaguchi da Kyoto, dando impulso allo sviluppo urbano della città. Ma la sua bellissima moglie, figlia di una nobile famiglia di Kyoto, così lontana da casa cominciò a soffrire di nostalgia, e giorno dopo giorno diventava sempre più triste. Hiroyo, allora, fece venire da Kyoto alcuni fabbricanti di bambole, che ne realizzarono diverse per decorare la casa e ridare alla giovane la serenità perduta. Dopo questa bellissima storia, Giorgio mi regala un ciondolo con una di queste deliziose bamboline.

Alla sera, tornati a Hiroshima, decidiamo di cenare di nuovo al Polipo, dove reincontriamo la coppia giapponese della volta precedente, che insiste per offrirci un bicchiere di ottimo Barolo (non voglio sapere quanto gli è costato!). Stavolta Giorgio, dopo la pizza, ordina anche una zeppola: e fa benissimo, dato che pare buona proprio come quelle di Napoli. Finita la cena, ci avviamo alla stazione degli autobus, da cui alle undici partiremo per una notte in viaggio verso Osaka.

12 settembre 2016: all’alba arriviamo al capolinea degli autobus di Osaka, situato a poca distanza dalla stazione ferroviaria, nella quale entriamo per cercare la cremagliera che sale sul Monte Koyo. La stazione di Osaka è immensa, e meno male che abbiamo un’ora di tempo prima del viaggio sulla cremagliera, perché la utilizziamo tutta, ma proprio tutta, per riuscire a districarci nei meandri dei corridoi. La cremagliera sale verticalissima e fa un po’ paura, ma non rinunciamo a piazzarci in pole position per goderci la salita. Una volta arrivati sul monte, cerchiamo il monastero dove passeremo la notte (il monte ne è costellato) e lì lasciamo gli zaini.

Tornati all’aperto, giriamo un po’ fra i diversi edifici, seminascosti fra gli alberi, e poi entriamo in un monastero che permette ai turisti di partecipare a una meditazione: a quanto pare, siamo gli unici turisti, e ci affanniamo quindi a copiare le mosse degli altri e a cercare di imitare i loro vocalizzi (temo in modo piuttosto insoddisfacente). Visitiamo poi il giardino giapponese del monastero, con la sua ghiaia pettinata (che cosa triste!!!), e per concludere facciamo una passeggiata nel cimiero, che assomiglia a uno dei nostri Parchi della Rimembranza, (secondo me molto più vivo del giardino ghiaioso: sono strani, ‘sti giapponesi), fino a che non cala la sera. A quel punto torniamo al monastero per cenare: ci viene portato un vassoio, in camera nostra, con un sacco di verdure dall’aspetto inquietante e svariati tipi di legumi. Ma che bello.

Andiamo a letto molto presto, perché l’idea è di prendere parte alle preghiere mattutine delle 5.00.

13 settembre 2016:

Parco delle Scimmie di Iwatayama: la Iwatayama Monkey Park è una zona boschiva vicino al Tenryu-ji. Popolata da tantissimi macachi che amano farsi fotografare. Dalla cima della collina si gode anche di una vista meravigliosa dei dintorni

Bosco di bambù di Arashiyama

14 settembre:

Santuario di Fushimi Inari-taisha

Il complesso è costituito da cinque santuari e si estendo lungo i fianchi dell'Inari Yama, all'interno di un bosco. Il sentiero di torii si inoltra per la montagna per circa 4 km.

Una delle immagini iconiche della città di Kyoto: il Padiglione d'Oro (Kinkaku-ji) è uno dei must-see della città. Al centro di un laghetto inserito in un ambiente naturale molto caratteristico e suggestivo, il tempio si sviluppa su tre piani, ognuno dei quali realizzato secondo un diverso stile architettonico.

Gion

15 settembre

Museo della ferrovia

Tempio Ginkakuji

Il Tempio Ginkakuji è anche chiamato Padiglione d’Argento perché all’atto della costruzione l’idea era di ricoprire il tetto in argento. I colori, gli alberi e la quiete che regna sovrana fanno del Ginkakuji un vero e proprio gioiello ?

Il Sentiero del Filosofo (Tetsugaku no michi)

Il palazzo imperiale trova immerso nel parco Imperiale di Kyoto, vero e proprio polmone verde nel cuore della città che già da solo merita senz'altro una visita.

16 settembre: oggi visitiamo Nara, con il famosissimo Tōdaiji, uno dei templi in legno più grandi del Giappone. Entriamo passando da un ingresso monumentale e una piacevole passeggiata ci porta all’edificio che ospita una statua in bronzo del Buddha alta 15 metri, davanti alla quale una scolaresca sfila compostamente. Fuori dal tempio, e in tutto il Parco di Nara, troviamo cervi assatanati che cercano di mangiare le nostre cartine; ma noi, essendo stati sottoposti al rodaggio di Miajima, stiamo bene attenti a non lasciarle troppo vicine ai loro musi golosi. Due ragazze giapponesi, invece, hanno la malsana idea di comprare da un venditore ambulante dei biscotti per i cervi: non appena li spacchettano eccole circondate da una quantità inverosimile di quadrupedi, che in effetti risultano un po’ inquietanti. Le ragazze prima ridono, poi cominciano a innervosirsi e cominciano a urlacchiare cercando di rompere l’assedio. Noi le lasciamo al loro destino - tanto i cervi non sono pericolosi.

Terminato il giro del parco, visitiamo la cittadina e guardiamo un sacco di vetrine, perché Giorgio vuole comprarsi uno yukata, ovvero un kimono da uomo. A quanto pare gli yukata, anche solo quelli di cotone, costano un sacco – troppo per l’uso che un occidentale potrebbe farne. Giorgio ci ha quasi rinunciato, quando incappiamo in un negozietto di kimono usati. Il posto è davvero piccino, ma strapieno di kimono, fra i quali uno da donna, bellissimo, nero con dei fiori ricamati sul fondo. Io però non intendo vestirmi da giapponese, quindi non lo compro.

Ma qui Giorgio trova il suo yukata, che in effetti gli sta anche molto bene, ed esce dal negozio col suo pacchetto sotto il braccio. Riprendiamo il treno metropolitano che in un’ora, con un cambio, ci riporta a Kyoto. Quando siamo quasi arrivati decido di chiedere, per scrupolo, a mia madre se lei indosserebbe un kimono. “Con molto piacere!”. Ma perché non imparo mai a farmi gli affari miei? Decido quindi di tornare, di corsa prima che chiuda, al negozio di Nara. Giorgio, che ha bisogno di un bagno e di guardare i trenini in esposizione al secondo piano della stazione di Kyoto (e non necessariamente in quest’ordine), esce dai tornelli.

Io, finchè non esco, posso risalire sul treno che va in direzione Nara. Il problema si presenta alla stazione intermedia, dove dovrei acquistare un nuovo biglietto. Ovviamente non ne ho la minima intenzione, così mi presento tutta agitata alla sorvegliante dicendo che devo tornare di corsa a Nara perché ho lasciato il passaporto in un negozio e lei, gentilissima, mi lascia passare. Arrivata a Nara, per uscire dovrei inserire il biglietto nei tornelli, ma il mio biglietto è sbagliato, perché è quello della tratta Nara-Tokyo. Quindi vado dal sorvegliante e gli spiego la situazione. “E come torni?” “Compro un altro biglietto”. “No, torna qui e io ti apro”.

Ovviamente tutto più o meno a gesti. Ma grande il controllore di Nara! Corro al negozio, compro il kimono, torno a passo sostenuto verso la stazione, e trovo una sorpresa. Sul laghetto artificiale in centro città, che prima era un semplice laghetto, si sono materializzate diverse imbarcazioni addobbate in guise diverse, perfino da dragone, che evidentemente si preparano per una battaglia: immagino che lo scontro si terrà stasera, al calar del sole, ma sono molto belle e mi fermo a guardarle per qualche minuto. Peccato che Giorgio sia rimasto a Tokyo, se fosse stato qui ci saremmo potuti fermare. Ma non è qui, e così rientro a casa, dove ho appuntamento con Giorgio.

Stasera sushi (lui, io spero di trovare una qualsiasi forma di pesce cotto). Ci rechiamo a cena in un centro commerciale, dove pare che facciano un sushi buonissimo, e mentre cerchiamo il ristorante arriviamo nella corte centrale. In mezzo alla corte, seduta per terra, c’è una bambina sui 4 anni, tutta sola, che sta aprendo la bocca con l’evidente intenzione di cacciare un urlo potentissimo. “Ehi, cosa fai tutta piccola e sola?” le dico in italiano.

Lei mi guarda, sembra capire, richiude la bocca. “Dov’è la tua mamma?” insisto. Lei si alza in piedi e indica un punto alla mia sinistra. Seguo con gli occhi la direzione del suo indice, e vedo una coppia di giapponesi sorridenti che si inchinano. Mi inchino anche io, poi torno a rivolgermi alla bimba. “Vai dalla tua mamma” le dico, senza fare alcun gesto. Lei parte di corsa verso i genitori, ma arrivata a mezzo metro da loro si blocca, fa mezzo giro su se stessa e riprende a correre, stavolta verso di noi. Panico. Se vuole che la prenda in braccio cosa faccio? Poi magari i suoi non la vogliono più, perché è stata contaminata da una gajin! Mentre rifletto mi accoscio, in modo da guardarla negli occhi, e quando arriva le dico “batti il cinque!”, mostrandole i palmi, e lei incredibilmente esegue. Poi guarda Giorgio, speranzosa, ma lui ha occhi solo per il sushi. “Giò – gli sibilo- dalle il cinque!”. Lui le porge il palmo, lei tutta contenta glielo schiaffeggia e poi torna al piccolo trotto dai suoi genitori. Incredibile, ci siamo capite: come nel film di Jarmusch si capivano perfettamente Ghost Dog, americano che si esprimeva in inglese, e il suo unico amico che parlava solo francese, in scene che avevo trovato molto poetiche.

Con questa chicca che rimarrà per sempre con me si chiude la giornata – anche il sushi passa in secondo piano.

17 settembre: ultimo giorno in Giappone. In treno ci rechiamo a Himeji per visitare il castello, una bellissima costruzione con fondazioni in pietra e pareti e strutture portanti in legno. All’ingresso c’è una signora giapponese con un cartello “visite in inglese gratis”. Non si sa come mai, siamo gli unici ad approfittare della sua gentilissima offerta, e iniziamo subito il tour. All’interno delle mura percorriamo una stradina con diversi saliscendi, che lei ci dice essere una “psychological trap”: secondo lei gli attaccanti, vedendo che la strada scendeva mentre il castello è in alto, avrebbero dovuto pensare di aver sbagliato strada.

Mah, si vede che avevano solo nemici interni! Sono strani, ‘sti giapponesi.

All’interno vediamo che il castello poggia su un’enorme colonna di legno divisa in due parti imbullonate fra loro che, ci racconta la guida, era un cedro millenario che è stato abbattuto apposta per rifare la colonna portante del castello. R.I.P. il cedro millenario. Il quale cedro, mentre lo trasportavano ad Himeji, si ruppe in due: ma fu “a lucky broken”, perché così gli architetti e gli ingegneri che progettavano il restauro del castello si resero conto che il cedro, se fosse rimasto intero, non sarebbe stato abbastanza forte per reggere la costruzione: e fare prima questi calcoli, no?

Arrivati al piano nobile, la nostra guida ci informa che le scale che vediamo portano al piano superiore, dove si sarebbe dovuto asserragliare il signore del castello nel caso in cui gli attaccanti fossero riusciti ad espugnare il maniero: lì, da solo, avrebbe fato harakiri. Le scale che portano su possono venire nascoste da due pannelli scorrevoli – “another psychological trap”, ci sussurra con aria da cospiratrice la nostra guida. Eh beh, trappolona!!!! Quando usciamo nel giardino, vediamo che è pieno di ciliegi morti. Chiediamo come mai siano ancora lì, e ci viene risposto che sono ciliegi centenari, quindi protetti.

E certo, i ciliegi centenari si lasciano dove sono anche se stecchiti da mo’, mentre i cedri millenari si abbattono allegramente, anche se in perfetta salute, per restaurare i castelli…. Sono strani, ‘sti giapponesi. Terminata la visita, la nostra gentile guida ci chiede se abbiamo qualche domanda, anche esulante il castello; io allora le chiedo come mai in Giappone non esistano le sedie, ma ci si sieda sempre raso-terra: forse loro sono comodi così? No, no, sono scomodi anche loro!!!! E allora, perché? Mah…. Forse perché dopo è più facile andare a letto, basta lasciarsi cadere all’indietro sul futon.

…sono strani, ‘sti giapponesi.

Salutata la nostra gentilissima guida, andiamo da soli a visitare i giardini del castello, attività che ci prende un paio d’ore; all’uscita, troviamo un venditore di caldarroste!!! Giorgio me le compra, e io ho un momento di beatitudine culinaria. Torniamo a Osaka e da lì andiamo all’aeroporto, dove riusciamo a imbarcare i nostri bagagli con ore di anticipo rispetto al volo che ci riporterà in Italia. Molto più leggeri, prendiamo la metro fino alla stazione di Kishiwada, dove si tiene il Danjiri Matsuri Festival: in attesa che arrivino i carri (danjiri), girelliamo fra i banchetti di cibo e souvenir. I carri sono alti svariati metri, in legno intagliato e ornati con decorazioni molto elaborate, tirati e spinti da squadre di uomini entusiasti, sulla sommità dei quali carri altri partecipanti danzano forsennatamente, costantemente a rischio di toccare con la testa i fili dell’alta tensione. Siamo fra i pochissimi stranieri presenti, e stranamente stavolta i giapponesi si mostrano molto socievoli con noi. Giorgio acquista un copricuscino con l’immagine di un danjiri, poi finalmente arrivano i carri e noi li accompagniamo, mentre i “tiratori” ci incoraggiano a bere alcool con loro.

Peccato avere il volo stanotte, perché ci stiamo davvero divertendo: pare che il clou della festa sarà domani, quando le squadre, dopo aver bevuto tutta la notte, si sfideranno trainando a velocità folle i carri nelle strette viuzze di Kishiwada. Molto spesso, però, i carri in curva si rovesciano, e ci sono già state vittime e feriti: per cui, forse, va bene fermarci qui. Sull’onda dell’eccitazione che ci ha comunicato il Danjiri Matsuri Festival torniamo in aeroporto, e chiudiamo così il nostro viaggio in Giappone.